Eugenio Corecco un Vescovo e la sua Chiesa: Volume 2
Cultura
Capitoli
S. Nicolao non appartiene al patrimonio della nostra storia civile, ma in prima luogo appartiene al patrimonio irrinunciabile della nostra fede cristiana, ecclesiale e cattolica.
Fu un cristiano che, pur nel lunghissimo silenzio di 20 anni, ha sovrastato, con la sua statura di uomo di fede, gli uomini del suo tempo. È nato nel 1417, un anno prima della conclusione dei XVI Concilio ecumenico, che aveva avuto luogo a Costanza, tra il1414 e il 1418, a soli 200 chilometri in linea d’aria da questa parrocchia di Sachseln, che gli ha dato i natali. Un Concilio che aveva messo fine ad uno dei fatti più incredibili della storia della Chiesa, quello della spaccatura della cristianità nell’obbedienza a tre Papi diversi; fatto che passò alla storia con il nome di Grande Scisma o Scisma d’Occidente.
Il Concilio di Costanza è riuscito ad insediare un solo Papa legittimo sulla cattedra di S. Pietro; non è riuscito, invece, a sedare i disordini esistenti tra il clero, i religiosi, i laici e le Facoltà teologiche. La vita ecclesiastica continuò per oltre un secolo nella confusione, e qualche analogia la possiamo riscontrare nella situazione ecclesiale svizzera dei nostri giorni. Il rinnovamento ecclesiale venne dalla base; dai movimenti mistici che proliferarono nel corso dei XV secolo, soprattutto in Alsazia. Con queste correnti di alta spiritualità, attraverso eremiti insediatisi in questi Cantoni primitivi, Nicolao della Flüe entrò in contatto, fin da quando era ancora giovane. Non meraviglia perciò che abbia trascorso gli ultimi venti anni della sua vita come eremita. Ha vissuto, anche in questo, partecipando coscientemente e come protagonista, agli avvenimenti di rinnovamento ecclesiale del suo tempo, pur essendo analfabeta.
Deriso e ammirato nel suo villaggio natale; guardato con perplessità e scetticismo da molti, ma ascoltato dall’Europa dei XV secolo, dalle cui corti e dai cui governi partivano ambasciatori (come da Milano), per consultarlo sui problemi inerenti al mantenimento della pace tra i Principi e gli Stati.
Un uomo che come tanti altri Santi è stato tormentato dal demonio e dai suoi fantasmi, ma un Santo, tra i pochissimi nella storia della Chiesa, forse l’unico, che il Signore ha condotto fin sull’orlo dell’abisso della Trinità.
L’ha intravista, folgorato da una luce che gli ha trasfigurato per sempre il viso, come era gia capitato a Mosè sul monte Sinai. Ne rende testimonianza il drappo, che tutti conosciamo, dipinto da un suo contemporaneo, su indicazione del Santo stesso. Quest’uomo che si è dato nella carne a sua moglie, con la passione e l’intensità di chi sa cosa significhi amare, e con il trasporto di chi è cosciente di partecipare con la sua donna, nella procreazione, all’esperienza divina della paternità; quest’uomo dall’anima gigantesca ha visto disvolgersi e snodarsi davanti ai suoi occhi il dramma del rapporto, eterno e immutabile, ma sempre nuovo, vivo e sfolgorante, delle persone della Santissima Trinità.
In questa visione trinitaria, che supera i confini della intelligibilità umana, Nicolao della Flüe ha colto una indicazione precisa per la sua vita: quella di essere mandato a compiere un’infaticabile missione di pace tra i suoi contemporanei.
È diventato il Santo della pace, tra gli uomini del suo tempo. Pacificatore silenzioso di molte situazioni familiari e comunali, in modo clamoroso però degli svizzeri alla Dieta di Stans.
Dalla contemplazione del mistero trinitario S. Nicolao ha
desunto criteri per essere presente in mezzo ai suoi contemporanei.
Ha preso sul serio l’affermazione che il Figlio di Dio è disceso dal cielo per la nostra salvezza e si è fatto uomo.
La salvezza consiste nella pace dell’uomo con Dio: nella nostra riconciliazione con Dio, che ha come conseguenza la riconciliazione con tutti gli uomini. La pace sta nell’amare Dio e il prossimo.
Nicolao della Flüe, dopo aver intravisto come in una luce il significato che ha per noi questo discendere dal cielo di Cristo per la salvezza degli uomini, si è prodigato, malgrado il nascondimento del Ranft, perché gli uomini del suo tempo vivessero nella pace.
La sua contemplazione della Trinità si e tradotta così in missione di pace tra i suoi contemporanei. Quello che sorprende inoltre è il fatto che ha saputo esprimere questa missione attraverso una formula semplicissima, presa dal contesto contadino in cui aveva vissuto come protagonista.
Agli svizzeri, ingordi e triviali, disposti a battersi a sangue, piuttosto che perdere, quando si trattava di dividere il bottino delle guerre di Borgogna, l’eremita non ha fatto ricorso ad argomentazioni dotte e sofisticate, ma ha mandato a dire: «Non estendete troppo lontano il vostro steccato e non intromettetevi negli affari degli altri». Il grande mistico, che aveva contemplato la Trinità, ha declinato la sua visione nella quintessenza della saggezza naturale del contadino, usando una formula perfettamente comprensibile dai suoi concittadini, anche dai meno colti.
Il contributo che noi dobbiamo dare oggi alla pace nel mondo non può più esaurirsi solo nel non erigere muri di cinta troppo lontani e nel non intrometterci negli affari altrui; politica che pratichiamo da tempo immemorabile.
Oggi l’invito che ci viene dalla sua coscienza cristiana potrebbe essere quello di abbassare questi steccati, che ci dividono dagli altri popoli. Non si tratta solo di essere più accoglienti verso i popoli più poveri, che bussano alle nostre porte e che un giorno potrebbero sfondarle, se non le apriamo con più oculatezza. Si tratta anche di pensare all’Europa.
È evidente che, rischiando il pericolo dell’isolamento gli steccati sono troppo alti.
Tuttavia non dobbiamo affrontare questi problemi solo in termini di calcolo economico e politico, ma, prima di tutto, scavando nella nostra coscienza di cristiani.
I problemi degli stranieri e dei rifugiati, e quello della nostra confluenza verso l’Europa, sono certo tra i problemi politici più difficili posti oggi al popolo svizzero. Ma potremmo fare l’elenco di molti altri problemi, che la Svizzera deve affrontare. Quelli delle nuove povertà, degli anziani, dei drogati, degli obiettori di coscienza, in campo militare, civile e medico; quello della pornografia privata e soprattutto nei mass-media; i problemi ecologici, quello della legislazione sull’aborto e sulla biogenetica.
La domanda che si pone a questo punto è allora questa. Perché S. Nicolao della Flüe è stato in grado di consigliare tante persone, di pacificare tante situazioni familiari e locali? E, soprattutto, perché è riuscito a dare un contributo determinante al problema politico centrale della Svizzera in quel momento storico, cioè al problema dell’unità dei confederati?
Ha saputo affrontare questi problemi non certo per il semplice fatto di essere obwaldese, confederato o svizzero, bensì perché, prima di tutto, aveva una chiara identità cristiana.
Era cattolico, un uomo di fede profonda, che si identificava con la Chiesa, anche se travagliata da mille divisioni e problemi, ancora più gravi di quelli che travagliano oggi la Chiesa nel nostro Paese. Era un uomo di Dio; un Santo 3.
Cari fratelli e sorelle, potrebbe apparire paradossale, ma oggi venendo qui in pellegrinaggio a SachseIn nel 700° della nostra Confederazione, non siamo venuti in primo luogo ad abbeverarci alla fonte del patriottismo.
Siamo venuti ad imparare che il cristiano prima di essere cittadino di una Nazione deve sentirsi membro della sua Chiesa. La nostra Chiesa, è la Chiesa che ha costruito l’Europa, perché il nostro Continente, fino a qualche secolo fa, è stato prima di tutto espressione culturale e politica della cristianità. La nostra Chiesa è la Chiesa universale, perché abbraccia persone e popoli appartenenti al mondo intero.
La prima appartenenza che il cristiano deve sentire è quella di essere membro della sua Chiesa. Se la nostra prima identità, quella che sentissimo più profondamente, fosse quella di essere cittadini delle Nazioni alle quali apparteniamo e che amiamo, allora, invece di lasciarci guidare dalla coscienza cristiana e cattolica, ci lasceremmo guidare dalla coscienza nazionale e risolveremmo i problemi a partire da criteri che non sono necessariamente di valenza cristiana.
Se S. Nicolao si fosse sentito prima di tutto confederato, si sarebbe schierato dalla parte di una delle fazioni litiganti e si sarebbe lasciato coinvolgere dagli egoismi e dagli odi; dallo spirito particolaristico, che divideva gli svizzeri.
Invece ha saputo porsi al di sopra delle parti, trascendendo ogni forma di campanilismo, perché aveva una coscienza cristiana universale. Per questo, e non perché era uno svizzero, sono venuti per incontrarlo, interrogarlo e chiedergli consiglio, da ogni Paese d’Europa.
Il primo contributo alla soluzione dei problemi che la nostra Confederazione deve affrontare attualmente, per noi cristiani deve essere quello di riscoprire la nostra identità più profonda, di cristiani e di cattolici. Solo così saremo in grado di trascendere i riflessi storici nazionalistici, che portiamo nella nostra coscienza, per affrontare la situazione storica attuale, con apertura di spirito. Non con un’apertura da persone solo intelligenti e illuminate, ma con un’apertura che viene dal nostro essere in quanto cristiani, prima di tutto membri della Chiesa e perciò cittadini del mondo e, per incominciare, dell’Europa.
I vescovi sono cittadini del mondo e sono per loro vocazione i primi cittadini europei. Voi cristiani dovete avere nei vescovi e nel Papa il vostro primo punto di riferimento. Solo a questa condizione saremo assieme in grado di dare un contributo illuminato ai gravi problemi che la nostra Confederazione deve affrontare.
Questo vale, in primo luogo, va senza dirlo, per il modo con il quale dobbiamo affrontare i gravi problemi che serpeggiano nella nostra Chiesa, in Svizzera. Più che mai in questo caso dobbiamo sentirci più cattolici che svizzeri, perché se la Svizzera non può più pretendere, dall’Europa, di essere considerata, a tutti gli effetti, un Sonderfall, tanto meno lo può essere la Chiesa in Svizzera in rapporto alla Chiesa universale. Non esiste una Sonderkirche svizzera. Esiste solo una Chiesa particolare, aperta a realizzare in se stessa, senza paura di perdere la propria identità specifica, tutti i valori della Chiesa universale.
S. Nicolao è svizzero ed è il nostro orgoglio. Ma non è Santo perché è svizzero. È Santo perché ha respirato nella sua anima tutti gli orizzonti senza confini della cattolicità. Poiché era un Santo, lui che aveva radici così profondamente attaccate all’ «humus» della sua terra e della sua Patria, stato, del suo tempo, il più grande di tutti gli svizzeri.
La lezione che siamo venuti ad ascoltare, qui davanti alla sua tomba, è questa: quanto più saremo persone di fede, aperte, senza reticenze, agli orizzonti della Chiesa universale, che è la nostra prima Patria e la prima dimora della nostra persona; quanto più saremo attenti e aperti al Magistero universale della Chiesa, tanto più saremo capaci di interpretare il bene della nostra Nazione; soprattutto, sapremo capire le difficoltà e le miserie della nostra Chiesa particolare in Svizzera. Quanto più saremo fedeli alla Chiesa universale, tanto più sapremo evangelizzare nuovamente la nostra Chiesa e la nostra società in Svizzera.
A S. Nicolao, che nel piccolo orrido del Ranft, ha vissuto nascosto, lasciandosi illuminare dalla luce sfolgorante della verità universale, quella del mistero della Trinità, dobbiamo oggi esprimere tutta la nostra gratitudine per aver aiutato i nostri antenati e per averci indicato la strada da percorrere come cristiani.
In questo 700° anniversario della nostra Confederazione siamo venuti quassù, pellegrini fiduciosi, ma anche contriti, per domandargli la grazia di saper vivere la nostra missione e il nostro impegno nei confronti della nostra Confederazione e della nostra Chiesa in Svizzera, con un cuore e con una mente profondamente illuminati dalla luce di una fede cristiana realmente vissuta.
3 Il 23 gennaio 1990, nel corso dell’Omelia pronunciata alla Messa per il Cinquantesimo della morte del Consigliere Federale Giuseppe Motta, Mons. Eugenio Corecco, ha, tra l’altro, ripreso la conferenza tenuta dallo statista nel 1928 a Lucerna, davanti agli studenti cattolici, sul tema “Le rôle de la jeunesse catholique en Suisse”, da lui definita : <<il discorso che, probabilmente meglio di tutti gli altri, rivela i profili della personalità di Motta, impegnato come cattolico a dare una testimonianza di fede attraverso l’azione politica, a livello nazionale ed internazionale>>.
<<(…)È una catechesi rivolta a giovani studenti, ma estendibile, nella sua validità, a tutti i cristiani, poiché sintetizza il modello del cattolico impegnato nella società, attorno a quattro doveri fondamentali. Il primo, insostituibile dovere, di cui tutti dobbiamo sentirci investiti, è quello di professare e praticare la nostra fede. La fede vissuta non come sovrastruttura spirituale, bensì come punto di riferimento operativo e reale della vita, senza cedimenti, già allora di moda, di fronte alla cultura dominante. Con intuito moderno, Motta esortava i giovani: a non essere cedenti di fronte all’asserita esistenza di un’incompatibilità tra la religione e la scienza, e a non accettare l’imperativo della scientificità, quale unico omnicomprensivo criterio per capire e guidare il destino dell’uomo.
Il secondo dovere del cattolico è quello del rispetto della tradizione politica, che secondo Motta doveva coincidere in Svizzera, con il rispetto della tradizione federalista e democratica, fondata sulla libertà. Per quanto sorprendente possa essere questa affermazione di Motta, essa è storicamente plausibile. In realtà, però, Motta fonda questa sua affermazione risalendo ad un principio più universale, che conferisce al suo discorso un risvolto conciliare «ante litteram»: il principio della libertà di coscienza, In questo contesto afferma, infatti, che la democrazia è vera solo in forza del fatto e nella misura in cui essa realizza un’autentica libertà di coscienza. Il rispetto della libertà di professare e praticare la propria fede religiosa, deve essere vissuto da ogni cattolico come criterio imprescindibile di rapporto con gli altri uomini. Il terzo dovere è la dimensione sociale dell’esistenza. Questa socialità dell’agire del cristiano, tuttavia, non ha come referente solo l’uomo in quanto tale, e non ha, di conseguenza, come movente etico una forma qualsiasi di umanitarismo, bensì la carità stessa di Cristo. «L’uomo sociale per eccellenza», non esita ad affermare Giuseppe Motta, facendo esplicito riferimento a S. Vincenzo de’ Paoli e a Federico Ozanam, «è il Santo, perché tutta la sua attività tende a realizzare la perfezione della legge suprema di Cristo, che è quella della carità». La santità del cristiano è così indissolubilmente legata all’impegno sociale, assunto, però, per amore di Cristo.
Il quarto dovere è quello dell’internazionalità. Motta ritiene che il cattolico è internazionale per sua natura. Quale errore formidabile. Esclama attingendo nel profondo della sua coscienza cristiana, forse prima che in quella di uomo politico, «quale errore formidabile sarebbe stato se la Svizzera si fosse astenuta dalla Società della Nazioni, poiché allo stesso modo che non esiste opposizione tra fedeltà alla Chiesa e la fedeltà alla Patria, non c’è opposizione, bensì armonia, tra l’amore della Patria e l’amore all’umanità».
Non ci sono elementi per dubitare che l’apertura e la determinazione internazionali, che hanno caratterizzato tutto l’impegno politico di questo grande statista, abbiano trovato il loro primo «humus» nella naturale risonanza universale presente nella sua coscienza di cristiano e di cattolico. (…).
Per Giuseppe Motta l’identità cristiana risulta così determinata da quattro dimensioni spirituali, la cui ascendenza culturale risale inconfondibilmente alla tradizione cristiana più autentica. Proprio per questo il modello di cristiano elaborato da Motta, conserva, al di là della paludata veste letteraria che lo data nel tempo, una capacità propositiva in grado di esercitare un fascino anche su di noi che, a cinquant’anni di distanza, ci interroghiamo sul modo di esprimere la nostra identità cristiana nella società contemporanea. La risposta è semplice e lineare.
Primato dell’esperienza di fede, su qualsiasi altro impegno; apertura al dialogo nel rispetto della libertà di coscienza; passione per la solidarietà sociale; vocazione missionaria universale (…).>>.
Nel racconto della storia dell’umanità, in ordine alla Salvezza, la Bibbia contrappone due grandi avvenimenti: l’episodio della Torre di Babele (Gen. 11, 1-9) e l’evento della Pentecoste (Atti 2, 1-11).
Agli albori della storia la Bibbia fa emergere il peccato dell’umanità contro il piano creatore di Dio: la pretesa dell’uomo di unificare il mondo costituendo un unico popolo attorno ad un’unica lingua e ad un’unica cultura. Dio sconfessa questo progetto umano perché prescinde da Dio ed è contrario alla Creazione. Nella sua immaginazione, l’autore sacro descrive così l’intervento di Dio sul cantiere degli uomini: «Il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo e disse: “Ecco, essi sono un solo popolo ed hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera ed ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo, dunque, e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro. Il Signore li disperse di là, su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città”».
Il progetto sociale, culturale e politico dell’uomo, emerso con la costruzione della Torre di Babele, di unificare l’umanità imponendo a tutti la stessa cosa e senza tener conto della paternità di Dio su tutti, nega la libertà originale della persona umana di esprimersi secondo un’identità culturale e politica propria. La diversità etnica, linguistica, culturale e sociale di ogni popolo e di ogni Nazione appartengono, infatti, all’ordine originario della creazione di Dio; è inerente al modo con il quale Dio ha predeterminato la storia dell’umanità.
Nello stesso modo in cui l’uomo ha bisogno della famiglia ed ha diritto di costituirla per essere educato a scoprire la sua vera identità umana, l’uomo ha bisogno anche di appartenere ad un popolo e alla Nazione, che costituiscono l’ambito in cui può crescere culturalmente e politicamente, così da esprimere se stesso in modo completo.
Papa Giovanni Paolo II ha affermato a Ginevra, davanti all’UNESCO, che un popolo, costituito in Nazione, è la comunità degli uomini uniti da legami diversi, da una storia comune che supera l’individuo e la famiglia, da una lingua propria e da una cultura particolare, che rappresentano l’orizzonte globale entro cui la persona umana concepisce il proprio destino.
II progetto della Torre di Babele è totalitario e la Bibbia sottolinea che, su questa base, contrariamente a quanto gli uomini hanno creduto e possono sempre ancora credere, non riusciranno mai ad intendersi.
Il secondo avvenimento riferito dalla Bibbia è quello della Pentecoste, che celebriamo oggi con questa solenne liturgia.
La Pentecoste restaura nella storia dell’umanità l’immagine originale secondo cui Dio ha creato il mondo, riaf- fermando il principio che la diversità etnica, linguistica, socio-culturale e politica, appartiene alla struttura dell’esperienza umana. Ribadisce, perciò, il principio della necessità e legittimità del pluralismo culturale e politico.
Tuttavia, il Nuovo Testamento introduce un elemento nuovo nella storia dell’umanità, valido a partire dall’Incarnazione e dalla Redenzione di Cristo.
Gli Atti degli Apostoli (2, 6-11) riferiscono che, mentre gli Apostoli parlavano, ciascuno li sentiva parlare la propria lingua: «Erano stupefatti e, fuori di sé per lo stupore, dicevano:
“Costoro che parlano non sono forse Galilei? E com’è che li sentiamo parlare la nostra lingua nativa? Siamo abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia… dell’Asia… dell’Egitto, della Libia… siamo stranieri di Roma, Ebrei e Arabi e li udiamo annunciare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”».
L’elemento nuovo, capace di riunificare gli uomini e i popoli non può venire da un tentativo umano autonomo, come avevano fatto i costruttori di Babele, ma solo da un riconoscimento di tutti, nella fede, della persona di Gesù Cristo. Un riconoscimento che può avvenire solo se tutti siamo disposti ad accogliere in noi la Grazia e la presenza dello Spirito Santo. Nessuno, infatti, afferma S. Paolo nella lettera ai Corinzi che abbiamo ascoltato, «può dire Gesù Cristo è il Signore, se non sotto l’azione dello Spirito Santo».
In realtà, continua l’Apostolo delle Genti, «noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito, per formare un solo corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi (ed oggi possiamo aggiungere svizzeri o stranieri, europei o asiatici, anglosassoni o africani), perché tutti siamo stati abbevera- ti ad un solo Spirito» (1 Cor. 12, 3 e 13).
La Pentecoste ha posto nella storia del mondo un fatto ed un principio sociale nuovo. Lo Spirito Santo, che ha reso irreversibile nella coscienza degli Apostoli e dei primi discepoli la fede nella persona di Gesù Cristo, ha dato origine ad una nuova comunità umana: quella che si riconosce nella Chiesa di Cristo.
«Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire – raccontano gli Atti degli Apostoli – si trovavano tutti assieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso un rombo, come un vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro come lingue di fuoco che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro, ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo».
La Chiesa, cioè tutta la comunità dei cristiani presenti nel mondo, è stata riunita e costituita da Cristo nello Spirito Santo, in quel giorno di Pentecoste di 2000 anni or sono, come modello di un’umanità nuova, perché redenta con il Suo sangue sulla Croce.
La Pentecoste richiama tutti noi e tutti gli uomini al fatto che l’unità degli uomini e del mondo può essere raggiunta solo nel riconoscimento comune di Dio creatore, di cui Gesù Cristo è diventato, nella storia, la manifestazione e la presenza concreta. Lo Spirito Santo è la forza che ci spinge verso l’unità perché, se lo sappiamo ascoltare ed accogliere nella nostra anima, ci mantiene nella fedeltà a Lui; ci mantiene fermi nell’adesione nella fede a «Cristo Redentore dell’Uomo, centro del cosmo e della storia» come afferma Giovanni Paolo II nella sua enciclica programmaticaRedemptor hominis.
Il Concilio Vaticano II afferma che «la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, è in Cristo sacramento, cioè segno visibile, elevato tra le Nazioni quale strumento, non solo dell’intima unione degli uomini con Dio, ma anche dell’unità di tutto il genere umano. La Chiesa è stata costituita con il compito di aiutare tutti gli uomini e tutti i popoli, oggi già più strettamente congiunti di un tempo da vari vincoli sociali, tecnici e culturali, a conseguire la piena unità in Cristo» (LG, I, 1).
Cari sorelle e fratelli nel Signore, celebrare la Pentecoste significa prendere coscienza di questa responsabilità, che tutti assieme portiamo nei confronti della società e del mondo. Siamo in grado di assumere questa responsabilità solo se siamo profondamente convinti del fatto che ciò che può unire veramente gli uomini sta nel riconoscere Dio come origine di tutte le cose; Padre di tutti gli esseri umani e fine ultimo verso cui tutti siamo in cammino. È Padre di tutti noi in Gesù Cristo, Suo Figlio, il quale ha redento tutta l’umanità dal peccato, versando il Suo sangue sulla Croce. È il peccato della nostra indipendenza, della nostra ribellione, ricorrente da sempre nella storia dell’umanità, come ci ricorda l’episodio della Torre di Babele.
Noi cristiani siamo responsabili verso il mondo di dare testimonianza alla verità fondamentale dell’appartenenza a Dio di tutti gli uomini. La nostra missione è quella di aiutare tutte le persone che ci circondano a non perdere o a riscoprire la fede in Dio, con la nostra adesione personale a Cristo Risorto, il quale continua ad essere concretamente presente nel mondo attraverso la Chiesa.
L’unità tra i cristiani è il più grande contributo che noi, seguaci di Gesù Cristo, possiamo dare all’unità tra gli uomini e alla pace nel mondo. L’unità e la pace devono essere fondate sul rispetto dei diritti di ogni persona umana e di ogni Nazione; sul rispetto delle minoranze, che, come ha affermato recentemente papa Giovanni Paolo II, è il banco di prova di ogni politica per garantire, su questa Terra, l’unità e la pace tra gli uomini.
Il messaggio della Pentecoste è semplice: pronunciare tutti assieme ed in modo sempre più aderente alla nostra persona che Gesù Cristo è il Signore. Ciò può avvenire solo se siamo aperti ad accogliere in noi la Grazia dello Spirito Santo, oggi misteriosamente rieffuso sulla Terra attraverso la memoria sacramentale della Pentecoste celebrata in tutto il mondo. Nessuno, infatti, può dire «Gesù è Signore» se non sotto l’influsso dello Spirito Santo.
Questo compito affidato alla Chiesa e reso pubblico dallo Spirito Santo, davanti a tutta l’umanità, il giorno di Pentecoste, interroga noi cristiani sul modo con il quale abbiamo assunto ed assumiamo questa responsabilità davanti alla storia.
La mancanza di unità tra i cristiani è il peccato più grave, del passato e del presente, consumato all’interno della Chiesa, costituita da Cristo nello Spirito Santo, come Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica.
Oggi, allo Spirito Santo dobbiamo chiedere il perdono per non avergli permesso di agire in noi con la pienezza della Sua grazia e dei Suoi doni.
È un perdono di cui abbiamo bisogno, prima di tutto individualmente, poiché tutti siamo divisi nella nostra persona, tra il bene e il male; siamo divisi nelle famiglie, con i nostri genitori e i nostri figli, con nostra moglie e nostro marito, anche quando non fossimo arrivati alla tragedia del divorzio. Ognuno di noi è diviso con i vicini di casa, con i colleghi di lavoro, con gli avversari politici, con i suoi operai e i suoi datori di lavoro; siamo divisi con i compagni di scuola, con gli insegnanti e con gli allievi; siamo divisi con gli stranieri perché stranieri, con i drogati perché drogati, con gli altri perché diversi. Siamo divisi con i nostri fratelli nel sacerdozio, con il Vescovo o con il Papa, con le nostre sorelle di vita consacrata. Tutti pecchiamo contro lo Spirito Santo, che è lo Spirito di amore e di unità.
Ma il perdono dobbiamo chiederlo anche tutti assieme, perché c’è divisione tra le comunità ecclesiali e tra le confessioni cristiane. Questo peccato è pubblico, in faccia al mondo, e più di qualsiasi altro compromette la missione affidata, il giorno di Pentecoste, da Cristo e dallo Spirito Santo a tutta la Chiesa.
È vero che ciò che ci unisce è molto più profondo, malgrado le apparenze, di quanto ci divide; tuttavia, è altrettanto vero che la comunione tra le nostre Chiese e comunità ecclesiali non è piena. Il Signore Gesù Cristo, invece, ci ha chiamati a vivere non un’unità qualsiasi, ma un’unità totale, perché il mondo possa più facilmente credere che il Padre lo ha mandato a salvare l’umanità (Gv. 17, 23).
Domani, a Basilea, si riunisce la prima Assemblea ecumenica europea. È il più grande raduno ecumenico che sia mai stato convocato nella storia. Un avvenimento straordinario, poiché segno inequivocabile che, in seno alla Chiesa, la consapevolezza della responsabilità affidata a tutti noi, al cospetto del mondo, sta emergendo in modo sempre più ineluttabile, fino ad affiorare con chiarezza alla porta della nostra coscienza e del nostro cuore.
L’assillo di guardare al futuro, “alla ricerca di strade nuove per esprimere la carità”, potrebbe nascere da un nostro dubbio interiore.
La carità è ancora atta a garantire la presenza della Chiesa nella società tenendo conto del contributo che essa deve dare alla soluzione dei problemi sociali del mondo contemporaneo? Una risposta semplicistica e perciò palesemente inadeguata, potrebbe essere quella di ricordare che la Chiesa, in realtà, dà il suo contributo alla soluzione dei problemi sociali non solo attraverso laCaritas, ma anche e soprattutto attraverso i sindacati cristiani, i quali, da sempre, lottano per la realizzazione della giustizia sociale.
Questa risposta potrebbe ingenerare l’equivoco di credere che il sindacato cristiano sia preposto alla realizzazione della giustizia, mentre la carità e la Caritas abbiano, come compito, solo quello di garantire il superfluo. Di qui il dubbio sottile, eventualmente contenuto nella formulazione del tema di questo Convegno.
In una società che pretende (almeno nei paesi ricchi come il nostro) di realizzare in modo sempre più globale il Welfare State (malgrado le ricorrenti crisi congiunturali), in uno Stato cioè sempre più sociale, la Caritas ha ancora una prospettiva di avvenire? Per definizione, infatti, il superfluo potrebbe anche non esistere, mentre sempre essenziale e imprescindibile è la giustizia.
Ma noi sappiamo che per il cristiano la virtù della carità non appartiene al novero delle cose superflue. Il pilastro fondamentale della vita del cristiano non sono le quattro virtù cardinali della prudenza, giustizia, fortezza e temperanza (formulate dalla filosofia stoica, da Seneca in particolare) e recepite anche dal pensiero cristiano. Il pilastro fondamentale della vita del cristiano sono le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità.
La carità appartiene perciò all’essenza stessa dell’esperienza cristiana. Non è possibile, di conseguenza, per il cristiano, regredire semplicemente al livello della pratica delle virtù cardinali (cui appartiene anche la giustizia) e muoversi perciò solo sul terreno della razionalità umana e del diritto naturale, prescindendo dalla pratica della carità, che appartiene all’ambito della esperienza soprannaturale, cioè della redenzione e della grazia.
La carità non coincide con il superfluo, è l’essenza stessa della vita del cristiano. Costituisce perciò l’elemento essenziale della presenza del cristiano e della Chiesa nel mondo e del suo contributo alla realizzazione del bene comune.
Non esiste dubbio sul futuro della carità e perciò, in modo derivato, della Caritas, in quanto forma istituzionalizzata per attivare questa virtù teologale. La Caritas è un albero che non può essere tagliato; anzi, deve crescere e dare frutti sempre più abbondanti, così come ci insegna la parabola del Vangelo. Siamo tuttavia tutti consapevoli che, in una cultura positivista come quella in cui viviamo, un argomento “a priori” non ha più la forza convincente di un tempo. Dobbiamo di conseguenza reperire la risposta alla nostra domanda, percorrendo altri itinerari di ricerca.
La Dottrina sociale della Chiesa che, paradossalmente, sembrerebbe essere stata elaborata per porre le fondamenta di una concezione cristiana non della carità, ma della giustizia, ha subìto, proprio su questa tematica, una profonda evoluzione.
La svolta nevralgica è avvenuta nel 1963 quando Papa Giovanni XXIII, nella Pacem in Terris, per fondare la dignità della persona umana non ha più utilizzato solo gli argomenti classici della filosofia, ma ha fatto ricorso anche alla Rivelazione.
Il fondamento ultimo della dignità della persona umana, salvata dal sangue di Cristo versato sulla croce, sta nella sua filiazione divina.
Questa argomentazione di Giovanni XXIII ha introdotto nella Dottrina sociale un nuovo criterio epistemologico.
Da quello puramente filosofico razionale (sia pure illuminato dalla fede), il Magistero pontificio è passato alla adozione di una conoscenza direttamente derivata dalla Rivelazione, perciò dalla fede. Dalla filosofia è avvenuta una evoluzione verso la teologia.
Il risultato è sorprendente. Se la prima pagina della dottrina sociale della Chiesa, quella scritta da Leone XIII con la Rerum Novarum parla della giustizia, l’ultima pagina della stessa, se si prescinde dalla Centesimus annus, quella scritta da Papa Giovanni Paolo II, cinque anni or sono, con laSollicitudo rei Socialis, propone il discorso della carità. Per liberare il proletariato dalla schiavitù in cui, nel secolo scorso (secolo del progresso), era stato assoggettato dal mondo padronale, Leone XIII ha invocato il criterio della giustizia e, su questa linea, si sono mossi anche i Papi successivi. Pio XI, commemorando la Rerum Novarum, quarant’anni dopo (1931), con la Quadragesimus Annus, affermava ancora, e giustamente, che non si può nascondere l’ingiustizia con la carità e che alla carità non spetta l’obbligo di coprire con un velo la violazione della giustizia.
Tutto ciò è profondamente vero, ma è evidente che in quel contesto il discorso sulla giustizia e sulla carità erano ancora condotti su due piani diversi, senza convergere verso una sintesi. Ciò dipende dal fatto che l’analisi della situazione di ingiustizia sociale, in cui versava la società, era fatta con criteri di natura prevalentemente economica e politica, mentre nella Sollicitudo rei Socialis, Papa Giovanni Paolo II ha introdotto un altro criterio di analisi.
Nel solco di Papa Giovanni XXIII, che, come abbiamo visto, aveva dichiarato la Redenzione di Cristo quale fondamento ultimo della dignità della persona umana, Giovanni Paolo II, nei numeri 3540 della Sollicitudo rei Socialis, invece di una lettura economica, ha dato una lettura teologica delle cause della ingiustizia sociale esistente nel mondo.
Papa Giovanni Paolo II sostiene che la radice più profonda dei disordini sociali non è di natura economica o politica, ma di natura morale e teologica. Alla radice sta il peccato personale degli uomini; stanno le <<strutture di peccato>> che via via si sono consolidate nella società, ma alla cui origine emerge sempre il peccato personale dell’uomo.
La nozione di peccato non è filosofica, ma teologica, poiché il peccato non ha come referente valori impersonali, come potrebbe essere per es. quello della giustizia, ma sempre il Dio personale; anzi, il Dio trinitario, dal cui seno si è rivelato il Figlio, nella incarnazione, per portare all’uomo la Grazia della redenzione.
Con la Sollicitudo rei Socialis la dottrina sociale della Chiesa è stata così collocata all’interno del binomio con il quale da sempre è stata fatta la lettura cristiana della storia: il binomio del peccato e della Grazia. La Grazia, intesa come perdono e aiuto dell’uomo, per la conversione del suo cuore.
La storia dell’umanità, in effetti, è la storia del coinvolgimento di tutti gli uomini nelle conseguenze, sia del peccato che della Grazia.
Il coinvolgimento nel peccato si realizza, socialmente e politicamente, nelle <<strutture di peccato>> che creano condizionamenti e ostacoli per la realizzazione del bene comune e dello sviluppo dei popoli.
Il coinvolgimento della Grazia avviene, socialmente e politicamente, nella solidarietà tra gli uomini. Quello della solidarietà è l’unico criterio possibile per superare la brama del profitto e la sete del potere, in quanto aspetti negativi più caratteristici della vita sociale contemporanea. Si tratta, infatti, di una solidarietà che deve realizzarsi non solo tra le singole persone, ma anche tra i gruppi intermedi e tra le nazioni, tra Nord e Sud; di una solidarietà intesa come opzione preferenziale per i poveri, nel senso non solo materiale ma anche spirituale della parola.
Dalla nozione di giustizia, la dottrina sociale della Chiesa è evoluta perciò verso la nozione di solidarietà.
Ma di quale solidarietà intende parlare la Sollicitudo rei Socialis? La solidarietà è senza dubbio una virtù umana, che potrebbe essere anche annoverata accanto alle quattro virtù cardinali già menzionate, attorno alle quali Seneca ha tentato la sintesi di tutta la sua filosofia morale.
Tuttavia, la solidarietà, afferma Giovanni Paolo II, tende a superare se stessa per rivestire la dimensione specificamente cristiana della gratuità totale, e perciò della carità, che è il segno distintivo dei discepoli di Cristo (Gv 13, 35). Il referente di questa solidarietà cristiana non è più perciò soltanto l’individuo umano, con i suoi diritti e la sua fondamentale uguaglianza rispetto a tutti, ma l’uomo, in quanto viva immagine di Dio Padre; in quanto persona riscattata dal sangue di Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito Santo.
Questo uomo, non più definito filosoficamente, ma teologicamente, deve essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore. Per lui bisogna essere disposti anche al sacrificio supremo: “dare la vita per i propri fratelli” (1 Gv 3, 13). Non è un caso che la Sollicitudo rei socialis a sostegno di questi concetti, introduce l’esempio di San Massimiliano Kolbe, che ha dato la vita per un uomo a lui estraneo, in nome di Cristo, considerandolo come fratello.
Su questa base teologica si prospetta l’emergere di un nuovo modello di solidarietà e di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi l’azione sociale del cristiano. Un modello che va al di là dei vincoli umani naturali, poiché ha come fondamento la carità. Per la prima volta nella dottrina sociale della Chiesa, la Sollicitudo rei socialis propone al mondo, come modello di riferimento, la forma della socialità tipica dell’esperienza cristiana; propone la comunione come modello per realizzare il bene comune di tutta l’umanità.
Se la Chiesa osa segnalare il proprio modello di comunione come esempio valido universalmente per realizzare la giustizia sociale, lo fa perché possiede la coscienza di essere chiamata dal Signore ad essere, come dice la Lumen Gentium, segno e sacramento di salvezza per il mondo intero.
<<I meccanismi perversi>> della società e le <<strutture di peccato>> potranno essere vinte, aff e rma la Sollicitudo rei socialis solo mediante l’esercizio della solidarietà umana che, per il cristiano, può logicamente configurarsi solo come comunione e perciò solo come frutto della carità.
A questo punto non possiamo non sottrarci, ancora una volta, ad una domanda precisa: ma cos’è la carità?
Come per la solidarietà, anche in merito alla carità le possibilità di equivoco sono grandi.
La carità non consiste solo nel fare qualche cosa per gli altri. È più di questo. Non può essere confusa con altruismo. Il fare, l’agire, l’intervenire, il dare, sono solo i modi in cui si realizza la carità, non sono la sua origine.
Non rileggeremo mai con sufficiente attenzione il celebre testo del cap. 13 della prima lettera ai Corinzi: <<Anche se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli… anche se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza… anche se trasportassi le montagne con la fede, ma non avessi la carità, non sarei niente. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo alle fiamme per gli altri, ma non avessi la carità, non mi gioverebbe a nulla>>.
È un testo che non lascia scampo. Il cristiano in quanto cristiano, non è nulla anche se facesse le cose più grandi di questo mondo, anche se distribuisse tutti i suoi beni in elemosina, o realizzasse la perfetta giustizia sociale.
Non saremmo nulla, poiché per vocazione non siamo stati chiamati a dare o a realizzare la giustizia in quanto tale o a praticare l’elemosina, bensì a condividere con gli altri la nostra persona, in nome di Cristo.
La virtù teologale della carità esige dal cristiano di riconoscere l’altro come parte di se stesso; parte della propria persona e della propria umanità. Il cristiano deve lasciarsi determinare dal fatto che Cristo, sulla croce, ha stabilito un’unità oggettiva tra lui e gli altri. Il punto genetico della carità sta nel riconoscere l’unità stabilita tra gli uomini da Gesù Cristo. Il cristiano è chiamato ad amare l’uomo ed a fare unità con lui e, così, a realizzare anche la giustizia sociale, non grazie alla propria generosità, ma in nome di Gesù Cristo. La carità consiste nell’aprirsi all’altro, non in nome dei propri sentimenti naturali, ma in nome di Gesù Cristo. Per questo il cristiano è chiamato addirittura ad amare anche il suo nemico.
La carità è, di conseguenza, un gesto che nasce da una concezione diversa di noi stessi. Il punto che siamo perciò chiamati a convertire è prima di tutto la concezione che abbiamo di noi stessi. Una concezione capace di generare in noi una coscienza nuova circa la nostra persona, diversa da quella presente nel mondo.
La carità, così intesa, è la conseguenza della nostra adesione, nella fede, alla persona di Gesù Cristo, e della nostra speranza circa il fatto che, come afferma S. Paolo, <<le tribolazioni del tempo presente sono senza paragone rispetto alla gloria che ci attende nella vita futura>> (Rm 8, 18).
Solo in forza delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità è possibile per il cristiano valutare in modo adeguato il destino globale dell’uomo. Sono i criteri che ci permettono di realizzare questo destino, dando una risposta adeguata anche alla “questione sociale”.
La nozione di solidarietà, proposta dalla Sollicitudo rei Socialis, sfocia nella nozione di comunione e di carità cristiana, superando tutti gli schemi dottrinali precedenti.
Rimane evidentemente vero che non è possibile praticare la carità se non si realizza la giustizia, ma l’enciclica Sollicitudo rei socialis afferma chiaramente anche che, per il cristiano, la giustizia deve essere vissuta e realizzata come, e in forza della carità. È l’insegnamento inequivocabile di S. Paolo: <<Anche se dessi tutti i miei beni agli altri, ma non avessi la carità, non sarei nulla>>
Perché nulla? Perché senza la carità non mi porrei come segno di Cristo di fronte alle esigenze di giustizia sociale presenti nel mondo. In quanto cristiani siamo, infatti, chiamati a rendere presente Cristo nel mondo.
Attraverso ogni intervento sociale siamo chiamati a porre nel mondo un segno rivelatore della salvezza.
Il vero problema perciò non è quello di sapere se continuerà ad esistere, anche in avvenire, uno spazio di intervento sociale per la Caritas, ma piuttosto di riuscire a precisare sempre meglio la sua modalità di intervento nel mondo. La Caritas, in effetti, ha come missione di essere lo strumento istituzionale attraverso il quale la Chiesa interviene nel mondo, ponendosi esplicitamente come attuazione concreta delle virtù teologali e, in particolare, della carità.
I settori e i criteri d’intervento della Caritas, in seno alla società, possono cambiare, come, del resto, sono costantemente cambiati, anche nel corso di questo primo mezzo secolo di esistenza della nostra Caritas diocesana. L’esperienza non lascia nessun dubbio sul fatto che in via primaria, oppure anche solo in via di supplenza rispetto alla società civile e allo Stato, esisterà sempre uno spazio di intervento specifico della Caritas. Ciò è vero anche nell’ipotesi che avvenisse una totale realizzazione del Welfare State
La ragione sta sia nel fatto che l’uomo è irriducibile ad un progetto culturale, sociale e politico di ogni tipo, sia nel fatto che l’amore per il prossimo è costitutivo dell’esperienza cristiana. La Caritasha perciò un ruolo insopprimibile, indipendentemente dal fatto che si esprima secondo forme istituzionalizzate oppure solo individuali.
Il problema dell’avvenire non è quello della sopravvivenza della Caritas in quanto istituzione. Sarà sempre possibile individuare nuovi bisogni dell’uomo e della società e nuovi spazi d’intervento. Il vero problema è quello di riuscire a fare della Caritas un’espressione sempre più eloquente della missione pastorale della Chiesa. Anche se la Caritas copre un settore particolare, non può mai limitarsi a fare gesti solo particolari. Ogni gesto deve, nella misura del possibile, contenere ed esprimere il tutto.
La transizione, nella dottrina sociale della Chiesa, da una visione d’intervento fondata sul diritto naturale e perciò sulla virtù della giustizia, ad una visione fondata sulla solidarietà cristiana e perciò sulla comunione e la carità, rende il ruolo della Caritas insostituibile, perché è chiamata a realizzare non solo la giustizia umana, ma la solidarietà cristiana, che nella sua espressione più precisa assume la caratteristica della comunione e della carità.
Qualunque dovesse essere la natura e il settore dei suoi interventi in campo sociale, la Caritas è chiamata, con urgenza sempre più grande, ad esprimere nella società due valori specifici del cristianesimo, la cui rilevanza sociale non è misurabile infatti con criteri puramente razionali. Il primo è la gratuità verso l’uomo in difficoltà, poiché è stata gratuita anche la redenzione offertaci da Cristo. Il secondo è quello dell’eccedenza, poiché eccedente è l’amore di Cristo verso di noi. La carità non ha come misura il bisogno dell’altro, ma la ricchezza e l’amore di Dio.
È, infatti, limitante guardare all’uomo e valutarlo a partire dal suo bisogno, poiché l’uomo è di più del suo bisogno e l’amore di Cristo è più grande del nostro bisogno. Sarà sempre possibile dare nei confronti dell’uomo e dei suoi bisogni, spirituali e materiali, una testimonianza di gratuità e di eccedenza. Anzi, è un dovere al quale siamo chiamati in forza della nostra vocazione cristiana.
Ne consegue, più che mai, che la carità, anche nella forma istituzionale assunta nella Caritas, non può essere eliminata dall’esperienza di una Chiesa particolare e non può perciò essere eliminata dalla nostra Diocesi.
In questa terza domenica di Quaresima, la celebrazione della giornata mondiale dell’ammalato ci ricorda che la sofferenza non coincide con la malattia. Oggi celebriamo una giornata che ci richiama al dovere di essere solidali con tutti quelli che soffrono, qualunque sia la causa della loro sofferenza e del loro dolore.
La sofferenza, che si è abbattuta come un’ombra gelida su queste valli, non è dovuta a malattia, ma a volere di uomo. Allora, più che mai, dobbiamo interrogare la Parola di Dio, propostaci da questa liturgia, per ottenere suggerimenti sul modo di comportarci di fronte ad eventi che minacciano la sicurezza personale e familiare degli operai di questo stabilimento, così importante dal profilo economico e sociale per tutta la regione e per il nostro Cantone.
Il primo testo, che abbiamo sentito leggere, ci ricorda quel momento centrale della storia del mondo, in cui il Signore ha consegnato all’umanità le due Tavole dei dieci Comandamenti.
L’ osservanza della Legge di Dio è la base imprescindibile di un’esistenza personale e sociale rispettosa della dignità umana.
Nessuna convivenza umana è possibile senza l’osservanza dei dieci Comandamenti, poiché, tra noi uomini così diversi per origine, razza, lingua, colore e cultura, il vivere pacificamente sullo stesso territorio presuppone il riconoscimento comune dell’esistenza di un Dio trascendente, che ci ha creati, che ci ama tutti come Padre, indistintamente, e che a ciascuno perdona i rispettivi peccati; presuppone la pratica di quei Comandamenti, che regolano il nostro rapporto personale e sociale con Dio, e sono contenuti nella prima Tavola della Legge.
È evidente che sarebbe ancora più impensabile poter vivere nella concordia, se dovessimo disattendere gli altri Comandamenti, contenuti nella seconda Tavola della Legge, che regolano il rapporto vicendevole tra gli uomini, come quello di non rubare, di non mentire, di non ammazzare, di non commettere adulterio.
In effetti, tutti abbiamo davanti agli occhi le immagini della realtà concreta in cui viviamo che ci fa capire perfettamente quanto sia vero il principio che, senza l’ osservanza dei Comandamenti, la guerra, la violenza e l’ingiustizia prevalgono sulla pace.
Gli effetti devastanti della guerra nella ex-Jugoslavia sono il riscontro esatto di quanto sia vero che solo l’osservanza dei Comandamenti, a livello individuale e collettivo, preserva l’umanità dall’orrore, dalla violenza e dall’odio. In Bosnia, come in numerose altre regioni del mondo, oggi, si bestemmia, si ammazza, si ruba, si stupra: nessun comandamento di Dio è rispettato. Il risultato sono la guerra, il dolore, la strage, l’odio, la violenza e l’abiezione umana.
Assieme al Sommo Pontefice, che nella sua recente Enciclica Veritatis splendor ha riproposto, a tutta l’umanità la pratica dei Comandamenti di Dio, oggi, più che mai, dobbiamo riconquistare la consapevolezza che la Legge morale di Dio non è un peso ingiusto imposto all’uomo, ma la condizione, perché la nostra vita umana non si trasformi in barbarie. Il rispetto dei Comandamenti di Dio è fondamentale, affinché nella nostra vita personale rimanga un riflesso dell’immagine e somiglianza di quel Dio trascendente che portiamo dentro di noi.
Di fronte a quanto sta avvenendo in questo stabilimento e in in questa zona industriale, a noi così cara, sentiamo il bisogno di rivendicare in modo particolare il rispetto di due Comandamenti fondamentali.
Il primo, quello di non dare falsa testimonianza; cioè il dovere di dire la verità. Ognuno di noi, uomo o donna, singolo operaio o famiglia, ha bisogno ed ha il diritto che sia detta, senza reticenze, tutta la verità di quello che sta per avvenire o è già avvenuto. Solo di fronte alla verità è possibile che ciascuno di noi possa accettare il susseguirsi degli eventi e delle decisioni.
Di fronte all’eventuale menzogna, per contro, non può nascere altro che la ribellione. La menzogna va contro la dignità della persona umana e la verità è la condizione indispensabile per realizzare una convivenza umana giusta, civile e democratica.
Il secondo Comandamento, di cui, in questo contesto, vorrei richiamare l’urgenza, e quello di non rubare.
La vita umana e sociale deve essere fondata sulla giustizia.
Abbiamo bisogno e abbiamo diritto di poter constatare che quanto succede e viene deciso, avviene e succede nel rispetto assoluto della giustizia. Non è possibile che la gente perda il lavoro, che le famiglie siano destabilizzate, che una regione sia precipitata in una situazione di depressione, unicamente in nome del profitto e ancor meno della sua massimizzazione.
Facendo queste osservazioni, intendo semplicemente ricordare che la convivenza tra di noi può essere giusta, dignitosa, democratica e rispettosa di ogni singola persona, solo alla condizione imprescindibile che i Comandamenti di Dio, e in particolare il Comandamento di dire la verità e quello di praticare la giustizia, e perciò di non rubare, vengano rigorosamente rispettati.
Questa sera ci siamo riuniti per vivere un duplice gesto di solidarietà, umana e cristiana nello stesso tempo. Non possiamo, infatti, lasciar sole queste famiglie, minacciate dalla perdita del loro lavoro; non possiamo lasciar soli, in mezzo a noi, coloro che hanno pianificato la propria esistenza attorno a questa sorgente di produzione, rappresentata dalla Monteforno.
Dobbiamo perciò stringerci attorno a queste persone e a queste famiglie con un abbraccio umano, perché esse appartengono alla nostra vita, alla nostra storia e alla nostra memoria.
Porto nel cuore, infatti, l’immagine di quando ero bambino e venivo a Bodio in vacanza presso i nonni. Verso le quattro del mattino, sentivamo sfrusciare in bicicletta, lungo la strada che attraversava l’abitato, la sciolta degli operai. Una massa silenziosa di uomini che da Pollegio, da Biasca e da Malvaglia venivano alle fabbriche di Bodio per riprendere il lavoro, e dare il cambio ai loro compagni. Prima di riaddormentarci, sotto le coperte, qualcuno sussurrava: <<Sono quelli della fabbrica!>>.
Questa generazione e quelle seguenti venute dall’estero, prima e dopo la seconda guerra mondiale, appartengono alla nostra storia.
È stata questa gente, cui guardavamo allora, purtroppo, con grande diffidenza, che ha aiutato noi vallerani a realizzare l’incontro tra la cultura contadina e quella operaia. La presenza di tutti questi operai ci ha lasciato intravedere un altro modo di vivere, diverso da quello contadino, nel quale siamo nati. Un orizzonte di vita diverso e più aperto ai problemi reali dell’umanità.
Dal loro incontro abbiamo tratto grandi vantaggi spirituali e abbiamo potuto guardare oltre i confini angusti delle nostre valli, dove il mondo operaio, tipico delle zone industriali, con i suoi problemi e i suoi valori, era ancora sconosciuto.
Proprio oggi dobbiamo prendere coscienza di quanto siano stati preziosi gli operai di queste fabbriche, venuti da lontano, che, con la loro fatica, hanno collaborato alla nostra ricchezza.
Oltre a questo gesto di solidarietà umana, oggi, dobbiamo fare anche un gesto di solidarietà cristiana, perché la nostra fede non sarebbe autentica e non toccherebbe realmente la coscienza della nostra persona se stessimo semplicemente a guardare e non ci stringessimo attorno a queste famiglie, che vengono a trovarsi in una situazione di grande precarietà e si risvegliano in preda forse alla più grande delusione della loro vita.
La fede ci domanda di essere loro vicini nella preghiera e nella carità, per aiutarli a superare questo momento difficile, senza ribellarsi interiormente contro il Signore. Dobbiamo aiutarli ad accettare interiormente le vicende della loro vita con atteggiamento cristiano. Infatti, nella disgrazia, la peggiore delle cose e il non saperla accettare come momento che ci aiuta a riflettere e può provocare in noi una conversione spirituale. Questo nostro aiuto sarà tanto più efficace se saremo loro vicini anche nella lotta per difendere i loro diritti sacrosanti, che oltretutto sono anche i nostri.
Il Signore non può non ascoltare questa preghiera, che è vostra, del Vescovo e di tutto il Clero di queste Valli.Il Suo aiuto è indispensabile, anche perché le trattative presenti e future possano essere illuminate, in entrambe le parti, dalla consapevolezza che non è possibile vivere nella giustizia, nella dignità e nel reciproco rispetto, se dovessimo violare i Comandamenti, che Lui stesso ci ha dato per garantire tra noi una convivenza pacifica.